Qual può voce mortal celeste cosa
Agguagliar figurando?
Giacomo Leopardi,Canti,
Sopra il monumento di Dante che si preparava a Firenze
Illustrare la Divina Commedia è sempre stato un compito arduo ed un’impresa ambiziosa quanto stimolante per gli artisti di tutte le epoche. L’opera di Dante ebbe presto una grande diffusione e i primi adornatori di manoscritti miniati riservarono ad essa impegno e qualità di lavorazione al pari delle sacre scritture.
Con il suo linguaggio poetico metaforico e con la sua finzione retorica, il poeta invitava a non fermarsi all’esterno letterale di ciò che narrava e a recepire nel profondo quell’alone di mistero che stava tra la parola e il suo velo allegorico: una percezione che ha anche dato adito allo stratagemma della licenza interpretativa consentendo a certi artisti, specie in epoche recenti, un rapporto progressivamente più libero col testo.
Scrittori e pensatori dell’ultimo Ottocento, dagli esoteristi a Giovanni Pascoli in testa (in Minerva oscura, La mirabile visione, Sotto il velame), ritennero che la Divina Commedia contenesse messaggi rivolti agli iniziati e si prodigarono a illuminare il linguaggio spesso oscuro della rappresentazione anche laddove magari più semplicemente, in forma poetica figurata, Dante evocava il mistero della rivelazione divina foggiata dal Cristianesimo, attraverso il grande racconto della vita, della morte e dell’eterno.
Il suo viaggio dell’anima nella vita oltremondana, dai regni bui della dannazione a quelli luminosi della gloria celeste, è una summa enciclopedica, morale e profetico-visionaria, a cui affluiscono con elevato e nuovo significato poetico, per vie segrete più o meno consapevoli, storie e credenze lontane, terribili e sublimi, stratificate anche nella cultura più popolare e tramandate nel tempo dalle fonti cristiane e pagane, come le visioni dell’Apocalisse di San Giovanni, la lettera di San Paolo ai Corinzi in cui narrava d’essere «stato ratto insino al terzo cielo, ove udì arcane parole che all’uomo non è dato favellare», il racconto del Purgatorio di San Patrizio del tardo XII secolo, il viaggio di Enea nell’Averno narrato da Virgilio nell’Eneide, oppure l’omerico approdo di Ulisse all’Erebo.
Con l’itinerario profetico della Commedia gli artisti hanno presto stabilito un parallelo simbolico-visivo attraverso un processo di similitudine, vivendo e dando forma, specie nella generazione classico-romantica e simbolista, al dramma della propria esistenza e del proprio destino, alla propria proiezione del contrappasso ultraterreno.
L’arte dei pittori trecenteschi, a partire dall’Inferno affrescato da Nardo di Cione a Firenze in Santa Maria Novella, istituì una spontanea affinità con la visione dantesca. Dalle ingenue miniature dei primi codici ancora vincolate ai bestiari medievali, via via nel tempo artisti di varia indole e temperamento, legati ai linguaggi e stili delle varie epoche, si cimentarono nell’arduo compito di “figurare” Dante, di affiancare il suo testo con immagini dipinte, disegnate o incise, accogliendo la sua disposizione a costituire la poesia appunto come concetto figurale, a metamorfosare la struttura poetico-verbale in concrete immagini visive.
Cercando di eguagliare la sua grandiosa narrazione allegorica ed evocativa, le descrizioni più sensazionali scaturivano inevitabilmente sempre dalla materia drammatica contenuta nell’Inferno, dove era più possibile teatralizzare e attuare il pathos, puntaresulla tensione spasmodica anatomo-muscolare dei nudi, agevole dar vita ad ambientazioni in bilico tra il reale e il fantastico, mostri, demoni e dannati dai volti concitati e sconvolti, ricorrendo all’espressività tragica e deformante spinta fino al grottesco e al sarcastico.
Al contrario nell’ineffabilità del Paradiso l’altezza dell’argomento faceva sì che la vis espressiva perdesse d’improvviso le sue risorse e la facoltà immaginativa venisse meno, specie laddove anche lo stesso Dante confessa tutta l’inadeguatezza della sua parola, la sua difficoltà di manifestare linguisticamente l’esperienza mistica, di tradurre in parole l’incontro col soprannaturale e il contenuto della visione, di esprimere l’indicibile per la vertigine dell’estasi e dell’oblio («la mente mia da me medesmo scema», oppure «All’alta fantasia qui mancò possa»). La capacità cognitiva (la memoria) e l’organo fonatorio (il parlare) vengono meno rispetto alla sopraffazione della vista. Soltanto una similitudine («Qual è colui che somniando vede […]»), di estrema raffinatezza musicale, può, sia pur in modo inadeguato, rievocare l’esperienza ineffabile. Il poeta tenta al contempo di risolvere l’antagonismo tra parola e visione e di materializzarla attraverso analogie sempre più audaci, elaborando una poesia contesa tra ricordo e assenza, ricorrendo a segnali sonori, allitterazioni, consonanti apicali che ci fanno cogliere, lasciandoci confusi, le complicate relazioni stabilite dalla teologia tra le tre persone.
Da un primo tipo di approccio fondamentalmente didascalico ed esegetico che si snoda attraverso i primi secoli nel solco di una consolidata tradizione, che pur vanta già nel Rinascimento punte di diamante innovative nell’estro di Sandro Botticelli, Federico Zuccari o Giovanni Stradano, passando attraverso la lettura visionaria protoromantica di William Blake e la maggiore fedeltà iconografica del popolarissimo modello ottocentesco di Gustave Doré che anticipa con i suoi strabilianti effetti scenografici le atmosfere del Simbolismo, si giungerà in pieno Novecento a sempre più personali interpretazioni e attualizzazioni visive delle suggestioni esercitate dal poema sul singolo artista. Nell’impossessarsi del testo in nome della propria originalità, si ha talvolta la tendenza provocatoria e anche un po’ egocentrica ad illustrare più che Dante se stessi, come è il caso dell’eccentrico Salvador Dalì che, rinnegando “l’ignominia” romantica di far credere che l’Inferno fosse nero come le miniere di carbone di Gustave Doré dove non si vede nulla, dichiarava con oltraggioso candore «Voglio che i miei acquarelli per il Dante siano come impronte leggere dell’umidità di un formaggio divino; da lì il loro aspetto variegato di ali di farfalla», oppure di Robert Rauschenberg che nelle sue serigrafie contaminava spregiudicatamente il poema divino con la Pop Art, mettendo in scena personaggi ed eventi contemporanei, manipolando e stratificando pezzi di varie forme (riviste, giornali, dipinti, ecc.) con acqua, inchiostro, vernici e carbone.
Il Novecento.
Episodio di rilevante significato allo scoccare del 1900 fu l’esito del concorso per l’illustrazione della Divina Commedia bandito a Firenze dall’editore Vittorio Alinari in occasione del VI° centenario dell’elezione dell’Alighieri a Priore delle Arti nel governo della Repubblica fiorentina, caduto in un clima culturale di rinnovato culto dantesco di cui riteniamo importante ripercorrere brevemente la storia.
Dal 1899 a Firenze la Commissione esecutiva della Società Dantesca Italiana aveva riportate la Lectura Dantis in Orsanmichele nella dalla neogotica cattedra neogotica di Lusini e nel 1900 aveva affidato il commento del Canto VIII dell’Inferno alla soggiogante oratoria di Gabriele D’Annunzio, all’epoca immerso in una personale “religione” dantesca, rimarcata dall’uscita nel medesimo anno della sua Laude di Dante (Roma, Tipografia del Senato). La figura del sommo poeta era in quel momento al centro di un’esaltazione e di una riscoperta assai forti, tanto dal punto di vista filologico che da quello idealizzante, volte a fare di lui un faro spirituale, un eroe, un profeta e quasi un superuomo. Tra le varie personalità di culto elette a modello di valori morali e spirituali dalla cultura del tempo – Leonardo, Michelangelo, Shakespeare, Shelley, Goethe, Wagner – Dante era quella suprema, mentre la Divina Commedia ispirava letture e approfondimenti molteplici, da quelli di carattere etico e teologico di Pascoli, a quelli in chiave superomistica di d’Annunzio, fino all’interpretazione platonizzante di Angelo Conti che ne sottolineava il mistero ed il carattere visionario, la potenza benefica e consolatricei; questo senza contare le sempre attuali interpretazioni iniziatiche ed ermetiche che nel corso dell’Ottocento, con teorie affascinanti, pensatori come Gabriele Rossetti, Francesco Perez, Luigi Valli, Eugène Aroux, Eliphas Levi e lo stesso Pascoli avevano dato del senso dottrinale dantesco, nascosto “sotto il velame” del suo complesso simbolismo allegorico. A questo faceva da corollario il mito stilnovista dell’amore di Dante e Beatrice nella pittura preraffaellita a partire dalla Beata Beatrix di Dante Gabriele Rossetti, poi affluito nell’ambito rosacrociano di Josephin Péladan e nell’estetica simbolista franco belga fin de siècle.
Il bando di Alinari fu accolto da trentuno pittori e disegnatori di tutt’Italia, in buona parte giovani, alla ricerca di un’affermazione personale in un’impresa che consentiva loro la possibilità di misurarsi con un testo importante in grado di fornire grandi possibilità all’elaborazione fantastica. Ogni illustratore doveva mandare saggi illustrativi di almeno due canti del poema, più due testate e due finali, si sarebbero poi proclamati i vincitori ed esposti i disegni in una mostra pubblica nei locali della Società Fiorentina di Belle Arti. Tutte le tecniche erano ammesse, compresa la pittura ad olio, anche se generalmente gli artisti optarono per il disegno a penna, matita, carboncino o acquerello tendente al monocromo.

Firenze: Fratelli Alinari editori, 1902 (-1903).
La giuria – composta da esimi dantisti di vecchio conio come Isidoro del Lungo e Guido Biagi, insieme ad accreditati e rispettabili pittori cittadini come Federico Andreotti ed Arturo Faldi – il 13 giugno 1901, in occasione della mostra, decise di assegnare il primo premio al giovane Alberto Zardo per i disegni dei Canti VIII e IX dell’Inferno, Il secondo ad Armando Spadini per i disegni dei Canti XII e XXV, e un terzo riconoscimento, aggiunto all’ultimo momento, fu condiviso ex-aequo tra Duilio Cambellotti e “Y.S.” alias Ernesto Bellandi. Se la commissione, di gusto piuttosto conservatore, giudicò il giovane Zardo il migliore tra tutti, un ponte di mezzo tra modernità e tradizione che sembrava anche più rispondere ai postulati richiesti, primo tra tutti la sicurezza della forma ed il suo adattarsi alla riproduzione fotografica, fu sensibile e lungimirante nel segnalare l’inventiva originale di Duilio Cambellotti, allora un quasi esordiente che comunque aveva già all’attivo alcune illustrazioni eseguite per le letture dantesche tenute al popolo da Alessandro Marcucci a Roma nel 1900 ed era giunto così al concorso preparato e già in possesso di un linguaggio figurativo audace, fatto di dissolvenze e di tagli scenografici sintetizzati e arditi, anticipatori di idee che l’artista romano avrebbe sviluppato poi nel teatro, in parallelo alle invenzioni di Appia e di Gordon Craig, nato con la precisa intenzione sociale di dare «un commento sintetico, riassuntivo, chiaro popolare».
Tuttavia la mancanza di un reale vincitore giudicato con le qualità necessarie per sostenere l’intera illustrazione del poema portò l’editore a far uscire nel 1902 il primo volume dell’Inferno stampato in edizione di lusso da Salvatore Landi con le riproduzioni di quasi tutte le opere pervenute dai vari concorrenti, tra i quali, oltre ai vincitori, figuravano Adolfo De Carolis, Giovanni Costetti, Giorgio Kienerk,Vincenzo La Bella, Serafino Macchiati, Adolfo Magrini, Giovanni Mario Mataloni, Natale Faorzi, Filippo Marfori Savini, Alberto Micheli fino al vecchio Giovanni Fattori.
In seguito, al fine di completare l’illustrazione delle cantiche del Purgatorio e del Paradiso, Alinari estese l’invito ad altri protagonisti del panorama figurativo del momento, come Giuseppe Bastianini, Arturo Faldi, Lionello Balestrieri, Alfredo Baruffi, Giulio Bargellini, Giulio Aristide Sartorio, Egisto Ferroni, Libero Andreotti, Giuseppe Mentessi, Ruggero Focardi e Ludovico Tommasi, mantenendo sostanzialmente intatto il principio della compagine eterogenea che mischiava veristi e simbolisti, artisti più maturi e nuove leve. Nel 1903 l’edizione veniva finalmente portata a termine con il ragguardevole numero di trecentottantotto illustrazioni, tra riproduzioni in bianco e nero di diversa grandezza nel testo e tavole fuori testo stampate col procedimento della collotipia, virate di volta in volta in sanguigna, in seppia, in azzurro, eseguite da un totale di una sessantina di artisti.
Il risultato fu un’opera illustrata collettiva, eclettica, discontinua per qualità e tendenze che suscitò all’epoca più di una critica per le sue difformitàii, anche se la linea emergente e volta al nuovo era quella di inclinazione simbolista, idealista e floreale che riguardava una generazione di artisti che si affacciavano alla ribalta trovandosi di fronte alla possibilità straordinaria di misurarsi con un testo eterno e fuori dal tempo, con la dimensione di un sogno umano e soprannaturale, avventuroso e profondo. Si spaziava quindi dalle concezioni ardite e scenografiche dei carboncini sfumati di Duilio Cambellotti (esecutore anche di alcune notevoli testate a guisa di bassorilievi che facevano risaltare la sua originale natura di scultore) ai teatrini di sapore gotico pieni di smorfie tragiche e parossistiche, figure ispide e disseccate, segni algidi ritagliati nel mistero nero e profondo degli inchiostri acquerellati di Alberto Martini (giunto fuori concorso su segnalazione di Vittorio Pica), dalle fluenti inflessioni neorinascimentali di Adolfo De Carolis (da poco tempo professore di ornato all’Accademia di Firenze e partecipante con i suoi allievi Libero Andreotti e Armando Sapadini) alle espressività corrucciate e alle vaghezze sublimi di Giovanni Costetti che evocava la maniera dei disegni di Leonardo, dagli echi mitteleuropei di Adolfo Magrini al linearismo di ascendenza preraffaellita di Alfredo Baruffi, mentre diversi altri introducevano più convenzionali e suadenti motivi floreali e decorativi, tant’è che proprio in virtù di quest’ultimi si è parlato spesso negli scorsi decenni, dopo la prima riscoperta del concorso e dell’edizione a stampa, della Divina Commedia Liberty, anche se i valori tonali e le mezzetinte di un crajonnisme dagli effetti sfumati ed evanescenti prevalsero di gran lunga su quelli bidimensionali e lineari tipici del disegno modern style.

La Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani a cura di Vittorio Alinari.
Firenze: Fratelli Alinari editori, 1902 (-1903).
Al di là delle etichette, La Divina Commedia Alinari rimane uno straordinario documento di un’epoca di trapasso che scardinava le convenzionalità accademiche ottocentesche alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi che caratterizzassero con maggior libertà lo spirito e l’individualità dei singoli artisti, nonché un importantissimo episodio della storia dell’illustrazione e dell’editoria italiana che si aggiornava e teneva il passo con il panorama internazionale, divenuto ormai da alcuni decenni oggetto di studio e di approfondimento sulle svariate tendenze dell’arte italiana all’alba del ‘900iii.
Una rilevanza storica che già all’epoca aveva sottolineato Giuseppe Vandelli nella sua prefazione al primo volume: «Questa la storia della nuova illustrazione, nuova non solo perché tutta composta di disegni originali, ma anche per la maniera in cui fu ideata e, in parte, per la forma della esecuzione. Essa non ha, né può naturalmente avere, pregio di criterio uniforme nell’interpretazione del poema; nemmeno può offrire unità di stile e lo stesso grado di perfezione artistica in ogni sua parte; ma è, e rimarrà, se mal non ci opponiamo, documento notevole e storicamente importante di varie tendenze che nel tempo nostro si agitano nel campo dell’arte italiana e vi si contrastano il terreno; mentre potrà essere istruttivo il vedere in quanti modi più artisti di una stessa età abbiano, sì per la diversità di scuola testé accennata, sì per la varietà intrinseca d’indole, d’abitudini, di cultura, interpretato il poeta, divino»iv.

L’interesse suscitato dal concorso Alinari e dall’anniversario dantesco spinse Attilio Razzolini, ingegnere e artista definito “francescano nell’anima”, apprezzato sia da Passerini che da Carducci, a cimentarsi in un’impresa solitaria e controcorrente, di curioso revival neoquattrocentesco. Dimorante alla Verna e innamorato dei preziosi antifonari lì conservati, miniò su pergamena, coadiuvato dai pittori Alessandrelli, Olivotto, Tetti e Bicchi che litografarono il suo lavoro, una Divina Commedia alla maniera antica, con gli incipit, le cornici decorate a colori e oro, eleganti caratteri di imitazione gotica. L’opera vinse premi e medaglie d’oro in varie esposizioni artistiche e fu molto lodata dall’ufficialità compreso il re e il papa. L’esemplare originale andò alla Rylands Library di Manchester e fu stampato in formato ridotto in volume e in cartoline da Alfieri & Lacroix a Milano nel 1902v.

Da ricordare all’inizio del secolo anche le cartoline riproducenti le sculture eseguite in plastilina da Domenico Mastroianni per illustrare in questo metodo inusuale (chiamato sculptogravure) il poema dantesco. Come altre serie di questo artista (dalla Bibbia alle gesta di Napoleone), vennero fotografate con particolari accorgimenti luministici che esaltavano la loro tridimensionalità, poi furono colorate ed edite con successo a Parigi e dalle edizioni Traldi a Milano. I modelli una volta riprodotti venivano distrutti e le cartoline rimasero l’unica testimonianza di questi originali e ben eseguiti lavori dedicati alla Divina Commedia, in bilico tra Liberty e retaggi ottocenteschi, con l’occhio rivolto verso il modello insuperato di Gustave Dorévi.
Al divino poema si ispirò anche Basilio Cascella con una serie di litografie di grande formato eseguite intorno al 1900, da riunire, secondo un progetto concepito insieme all’amico scrittore Bucci, in un volume illustrato che non venne mai realizzato. Le pietre litografiche e i fogli rimasti documentano un procedere artistico che sperimenta in modo molto libero e gettato un simbolismo dai toni drammatici ed espressionisti piuttosto avanti nei tempi se comparato col livello medio degli illustratori che concorsero per Alinari imbrigliati in una figuratività più tradizionalevii.
Stilisticamente legata all’essenziale linearismo Jugendstil è invece la Divina Commedia di Franz Stassen (Ein Dantekranz aux under Blätte, ein Führer durch die “Commedia”/Dante Alighieri, Berlin 1906), interpretata in senso simbolista spiritualizzante ed esoterico, ma coll’enfasi della Körperkultur e col cipiglio da saga teutonica, aspetti tipici di questo artista tedesco amico stretto dei Wagner a Bayreuth e futuro interprete delle apoteosi naziste.
Nel 1921 in occasione del sesto centenario della morte di Dante veniva pubblicata a Vienna-Lipsia-Zurigo dalla casa editrice viennese Amalthea la Divina Commedia illustrata da Franz von Bayros, il marchese austriaco noto più che come pittore per la sua opera di illustratore, di autore di ex libris e soprattutto per i suoi disegni libertini ed erotici spinti che gli costarono nel 1907 un clamoroso processo per oltraggio al pudore.
Canto del cigno di un linguaggio raffinato da finis Austriae già oltre la disfatta, la sua rilettura del poema dantesco è in una chiave figurativa mistico-sensuale che miscela e contrappone figure angelicate e demoniache, immagini lussuriose a visioni trascendenti ed eteree nel conflitto quasi didascalico tra Bene e Male, in un’ottica fondamentalmente cattolica per quanto mascherata dall’apparenza trasgressiva di una teurgia ambigua e sfarzosa. Una maniera quella di von Bayros che inesausta esibisce teatralmente attraverso un segno sinuoso e danzante il suo repertorio, sovraccarico, fastoso, languidamente perverso, dove il peccato si insinua fino ai luoghi incontaminati dell’anima, senza mostrare cedimenti di ispirazione neppure nella terza cantica, da sempre la più difficile e irrappresentabile con efficacia perché in essa generalmente il corporeo si dissolve nella luce impalpabile e l’iconografia sacra diviene inevitabilmente monotona oppure oleografica.

I suoi disegni denominati “fantasie a colori” – eseguiti a penna, acquarello e tempera oro, inquadrati da cornici decorative con effetto scultoreo e versi in calce in nome dell’ideale palingenesi delle arti – per quanto di cifra superlativa e inconfondibile, sono anche una summa di spunti figurativi che partendo dall’ammirazione dichiarata per l’arte del Quattrocento fiorentino e soprattutto per Botticelli riletto nella chiave preraffaellita, passa attraverso Doré per giungere all’internazionale simbolista e modernista,
specialmente dell’area mitteleuropea, ricordando di volta in volta Klimt, Mucha, Moreau, von Stuck, Böcklin, Klinger, Pogany, a ribadire oltre il possibile l’eredità inesausta di una koinè estetica di armonia e decoro che era capace nelle sue mitografie di dare dignità eroica anche all’istintualità e alla forza bruta, ma che nonostante il suo valore immenso era fatalmente condannata dagli eventi e dalle nuove avanguardie al dissolvimentoviii.
Dall’àlveo simbolista muoveva anche il ligure Amos Nattini che negli stessi anni in Italia si impegnava nella titanica impresa dell’interpretazione dantesca, dopo aver coronato all’età di diciannove anni, grazie alla mediazione dell’amico giornalista Filippo Maria Zandrino, il sogno di illustrare Le canzoni della gesta d’oltremare di Gabriele d’Annunzio in un album di disegni pubblicato nel 1912 dal Consorzio Autonomo del Porto di Genova.
Furono Zandrino e la stima di d’Annunzio che lo definì «pittore degli spiriti» a spronarlo a darsi anima e corpo al poema dantesco. Nel 1915 inviava i primi tre saggi delle illustrazioni, uno per cantica, in mostra alla Permanente di Milano, ma le reazioni di critica e pubblico furono in quel primo tempo di completa indifferenzaix. Lo scoppio della guerra interruppe poi progetti, rapporti, sodalizi e Nattini si trovò completamente isolato nel lavoro. A guerra finita, l’intervento di un ben introdotto amico avvocato, Rino Valdameri, portò ad una svolta improvvisa il paziente lavoro dell’artista, finalizzandolo ad un’iniziativa editoriale che aveva qualcosa di memorabile. Grazie all’intervento di un gruppo di sottoscrittori facoltosi, che Valdameri raccolse intorno all’appena fondato Istituto Nazionale Dantesco, fu avviato il progetto della più monumentale edizione della Divina Commedia che mai fosse stata realizzata. Le cento immagini di Nattini sarebbero state stampate a colori con un procedimento d’avanguardia, in dimensioni di cm. 81×46, intercalate al testo e rilegate da Otello Bertoni in tre volumi da riporre e consultare su un leggio appositamente disegnatox.

Nel 1921 la parte dell’Inferno fino ad allora eseguita fu esposta a Firenze in occasione delle celebrazioni dantesche. A un mese dalla mostra Ugo Ojetti riferiva che tutti stavolta ammiravano e capivano: «una processione continua di dantisti dottissimi e arcigni, di vecchi accademici che contavano i muscoli delle cento figure, di giovani artisti reduci da tutte le avventure ed esperienze prima dell’arte disarticolata, e poi dell’arte mummificata»xi. Ojetti – che sarà tra i più fedeli sostenitori dell’artista e suo strenuo araldo specialmente quando infuocherà nel 1931 la polemica contro la stroncatura “antiborghese” e novecentista di Pier Maria Bardi – ripercorrendo la storia dell’illustrazione di Dante non trovava che un nome da avvicinare al giovane artista genovese: William Blake. Come Blake Nattini muove da una propria carica visionaria e allucinata e concentra la rappresentazione drammatica sulla figura umana più che sugli effetti paesaggistici e scenografici alla Doré. Ojetti tesse quindi le lodi di un’illustrazione di impronta simbolista dove l’artista se è tale, illustra prima di tutto se stesso, ne ammira l’impeto onirico e lirico, ma al contempo l’essere al riparo dall’astrazione per il suo solido aggancio con la raffigurazione realistica, frutto di tecnica tradizionale e impeccabile mestiere. Nattini è virtuosistico nella raffigurazione del nudo, l’accentuata insistenza anatomica, a cui man mano dà volti di modelli sempre più contemporanei, è il suo punto di forza, la sua cifra inconfondibile frutto di studi accademici ma anche di un’indagine assidua e attenta dell’anatomia e del movimento, nata dall’osservazione e studio fin dalla giovane età dei corpi compressi e contratti dallo sforzo degli scaricatori del porto di Genova. È pertanto nel pathos e nella violenza dell’Inferno, esposto completo nel 1931 con grande successo ed eco di stampa a Parigi al Jeu de Paume, che Nattini offre il meglio di sé. Affascinanti sono anche le tavole dei primi canti dove il nudo non è ancora così plasticamente enfatizzato e monumentale come a partire da dal Canto XIII in poi, ma con un segno di ascendenza divisionista maggiore è la ricerca simbolica della luce, delle trasparenze e vibrazioni atmosferiche attraverso stesure filamentose e sottili di colore. L’aria si fa di volta in volta diafana e aurorale (l’incontro con le tre fiere, l’apparizione di Beatrice, il Limbo), densa e buia (Paolo e Francesca), sorda e opaca (Caronte), plumbea (Ciacco), rossa infuocata (la città di Dite). Il Fascismo plaudì ad ogni esposizione del monumentale lavoro di Nattini impossessandosi del nome di Dante a fini retorici e patriotticixii. Nel 1937 Benito Mussolini inviava un esemplare in dono ad Adolf Hitler in visita a Berlino alla Mostra italiana dell’Ottocento.
Nel 1922 l’editore Alinari aveva ripubblicato la sua Divina Commedia in una edizione rinnovata, stavolta in formato più piccolo (in quarto), con diversa impaginazione delle figure a cui ne aggiunse delle nuovexiii. I primi novantasette esemplari erano accompagnati da quattro litografie originali: una di Emilio Notte (Ritratto di Dante) e tre di Alberto Martini (Gli indovini per l’Inferno, Forese per il Purgatorio, Beatrice per il Paradiso).
Martini era stato uno degli artisti più originali comparsi nel cast dell’edizione del 1902-1903. L’incontro spirituale con l’opera di Dante – iniziato con forza e originalità malgrado la fretta con i ventidue disegni a china e acquarello eseguiti fuori concorso nel 1901 dopo che Vittorio Pica in una missiva del 30 giugno di quell’anno lo aveva raccomandato ad Alinari come l’artista più interessante del momentoxiv – si riaccende con le litografie per l’edizione di testa del 1922. I tre fogli rappresentano il Martini litografo di quegli anni (nel 1923 usciva per Bottega di Poesia il suo famoso ciclo Misteri, eseguito nel 1915) che cerca di riprodurre nella pietra litografica quei magici, vellutati trapassi pulviscolari di bianchi e di neri che aveva portato al massimo livello nei suoi disegni del primo periodo, a partire dalla serie per illustrare Edgar Allan Poe. Il messaggio rivelatorio ed illuminante della Divina Commedia, incrociato all’inizio del secolo incidentalmente durante un percorso giovanile gravido di scetticismo e sottoposto al richiamo degli stimoli più eccentrici e svariati, aveva lasciato evidentemente il proprio segno, trasformandosi poi con l’età avanzata in una vera e propria esegesi dantesca e alla fine quasi in una sorta di sermone autobiografico, autorevole pretesto per inscenare una lotta affabulatoria coi propri demoni persecutori. L’autobiografia Vita d’artista, scritta nel 1939-1940 e rimasta a lungo inedita, rivela proprio in quegli anni il ripiegamento di Martini su se stesso, amaramente in contrasto con il proprio tempo, impegnato negli autoencomi, nelle polemiche fustigatrici verso i critici e nelle invettive contro la corruzione artistica che lo circonda.

La penna era, come l’artista amava dire, il bisturi dell’arte e del disegno, uno strumento difficile ed acuto come il violino; il nero denso e assoluto dei suoi inchiostri di china provenienti dal Giappone il pozzo buio dell’anima che soffre, brancola e brama la luce. Una metafora di sapore alchemico che ben si attaglia al viaggio iniziatico della Commedia, che dalle tenebre della corruzione e della sofferenza conduce il pellegrino alle palingenesi luminose delle sfere paradisiache. «Dante fu certamente il maggior poeta del sogno della vita, del sonno e della morte» sosteneva Martini che continuò per circa dieci anni, dal 1936 al 1944, a operare religiosamente sulla Divina Commedia, intitolando il suo lavoro Nuovo commento figurato inteso propriamente come explicatio figurativa, scrittura visiva compresa (finanche ossessiva nelle diciture didascaliche), arrivando alla mole di duecentosettantuno disegni che non riuscì mai a vedere pubblicatixv: quindici più accattivanti a guazzo colorato e i rimanenti a penna in inchiostro di china a fondo bianco o nero piatti per lo più di condotta aspra, rigida, perentoria, araldica quasi neo-medievale, di volta involta espressionisti, surreali e astrattivi, molto diversi dalla meticolosità calligrafica che rese celebre l’artista a inizio secolo e lontani da ogni facile piacevolezza perché adesso Martini teneva in antipatia la vulgata di Doré e voleva bandire «i tradizionali sentimentalismi romantici antidanteschi, lo stile vignettistico che si limita a rappresentare i soliti popolari episodi della Commedia al fine commerciale di piacere al grosso pubblico ottuso
Appartiene a questa categoria, ancora di scia “romantica” e desueta che dovette essere invisa all’artista opitergino, La Divina Commedia illustrata da Tancredi Scarpelli per l’editore fiorentino Nerbini (1932), mentre caso un po’ diverso è quella di Giovan Battista Galizzi, che certamente in molte figure anch’essa finisce per compiacere l’occhio comune e il gusto popolare più tradizionale, ma contiene allo stesso tempo tavole più fantasiose e audaci – scaturite specialmente dalla materia dell’Inferno che al solito permette un’espressività più dirompente e più congeniale alla deformazione caricaturale tipica della vena originaria dell’artistaxvi – degne di un abile maestro della grande illustrazione che si muove in questo caso nel solco della più celebre immaginazione nattiniana, ripetendone le inquadrature, gli scorci vertiginosi e i suggestivi effetti cromatici. L’edizione fu edita nel 1943 dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara e contiene centocinque tavole di qualità altalenante per le suddette ragionixvii.

Legato al linguaggio aspro e drammatico della xilografia, tipica cifra delle avanguardie espressioniste, è il Dante-Block-Buch di Klaus Wrage pubblicato a Freiburg nel 1925 che dà del poema una visione bidimensionale, affidata ai neri intensi e graffiati da squarci bianchi di luce. Sempre affidato al medium xilografico è lo stravagante libro L’Enfer, illustrato da Herrmann Paul, stampato in caratteri gotici a Parigi nel 1924-1928 da Léon Pichon con prefazione di d’Annunzio.
Anche Georg Grosz si cimentò sulla Divina Commedia, ma la sterzata definitiva verso l’interpretazione moderna e “arbitraria” del poema avviene col genio più stravagante e provocatore del Surrealismo, Salvador Dalì, che scardina di contraccolpo una lunga e assodata tradizione figurativa, rinunciando alle percezioni vulgate di essa con l’eversione sperimentale del segno al di fuori dalle comuni topiche esegetichexviii. Quando Dalì presentò nel 1960 le sue illustrazioni della Divina Commedia per l’esposizione del Musée Galliera, asseriva a proposito del suo Inferno che stupiva per il suo aspetto luminoso e metafisico: «Il Romanticismo ha perpetrato l’ignominia di far credere che l’Inferno fosse nero come le miniere di carbone di Gustave Doré dove non si vede nulla. No, l’Inferno di Dante è illuminato dal sole e dal miele del Mediterraneo. È per questo che i terrori delle mie illustrazioni sono analitici, ultragelatinosi con i loro coefficienti di viscosità angelica».
Dalì aveva iniziato a lavorare nel 1950 alle tavole su richiesta del Poligrafico dello Stato per commemorare il 700° anniversario della pubblicazione della Divina Commedia e ne presentò una quarantina nel 1954 nella grande mostra antologica a Palazzo Pallavicini Rospigliosi al cospetto dell’ufficialità italiana e dell’aristocrazia. Tuttavia, dopo l’arrivo di critiche sferzanti alla qualità artistica e polemiche sull’entità del finanziamento pubblico, la commissione fu ritirata per ragioni soprattutto politiche a seguito di un’interrogazione parlamentare di deputati comunisti, in quanto non più ritenuta opportuna la scelta di onorare il sommo poeta italiano con un artista spagnolo, vicino alla Francia e con idee notoriamente reazionarie e filofranchiste. Dalì, pur sentendosi insultato, se ne prese gioco e passò il progetto raddoppiandone il costo all’editore francese Joseph Foret che ottenne i diritti di edizione nel 1959, ma per mancanza di denaro dovette cedere l’esclusiva a Les Heures Claires, Jean Estrade. Fu comunque pubblicata successivamente anche un’edizione in Italia dalla società formata da Editrice Internazionale Arti e Scienze e da Adriano Salani nel 1963-1964, con le tavole impresse dalla stamperia Valdonega di Verona su carta a mano dei F.lli Magnani di Pescia e diversamente impaginate.

Le cento tavole originali a colori in tecnica mista, acquarello e interventi a penna – suddivise in trentatre trittici ognuno dei quali è composto di tre tavole, più una figura isolata, Lucifero – furono completate dal 1950 al 1959. Dopo il successo riscosso al Musée Galliera fu deciso di trasporle in xilografia e ci vollero altri anni di lavoro per incidere i tremilacinquecento legni necessari ad imprimere progressivamente i trentacinque colori di ogni singola lastra, una paziente opera d’incisione sul legno affidata a Raymond Jacquet e Jean Ricco sotto la supervisione di Dalì.
Le tavole corrispondono alla redifinizione della poetica post-surrealista di Dalì nel “periodo mistico” successivo all’esplosione dell’atomica, quando nel Manifesto mistico dichiarava: «A un ex surrealista, nel ’51, non può capitare niente di più sovversivo che diventare mistico e saper disegnare». Nonostante i declamati propositi di ritorno all’ordine classico, esse rappresentano un vero e proprio excursus fascinoso e ambiguo nell’arte di Dalí, un viaggio esoterico nell’inconscio e nella memoria attraverso tutta una serie di linguaggi espressivi sperimentati con quello che chiamava il dono misterioso di scoprire “immagini invisibili”, di vedere ciò che sceglieva di vedere, e in qualsiasi luogo decidesse di vederlo e di cui trovava conferma nella psicopatologia: dalle allucinazioni surrealiste degli anni Trenta al realismo atomico, dal metodo paranoico-critico alla poetica metamorfica della deformazione e dilatazione frantumata, allungata e molle delle figure umane e subumane, fino ad inglobare i riferimenti classici di alcuni dei suoi maestri idealixix. Dalì in questo palese gusto dell’autocitazione e dell’eteroglossia volle identificare se stesso e il proprio processo evolutivo in Dante e parlava dell’amata Gala come della sua Beatrice, tuttavia le sue dichiarazioni circa la serietà dell’impegno vennero contraddette da altre rilasciate in contemporanea circa il primario fine pecuniario della sua illustrazione dantesca e dalla boutade all’intervistatore André Parinaud nel 1974, al quale confessava di non aver mai letto Dante, ma di averci solo sognato e riflettuto. Sarebbe stata Gala ad aver man mano abbinato a piacere le tavole al testoxx.
L’esempio stravolgente e insubordinato di Dalì incoraggia gli artisti a misurarsi col tema fuori dagli schemi consolidati e apre la strada a sempre più personali approcci come le trentaquattro illustrazioni (transfer drawings) di Robert Rauschenberg dedicate all’Inferno, risultato di una ricerca estetica sviluppata tra il 1958 e il 1960xxi. L’attualità conflittuale, caotica e contraddittoria del contesto contemporaneo, visto specialmente attraverso il medium televisivo e la pubblicità, irrompe con ritagli di giornale e fotografie, trasferiti mediante un solvente, residui della memoria e interventi d’avanguardia. Ad un certo punto Dante e Virgilio hanno le effigi dei candidati presidenziali democratici John Fitzgerald Kennedy e Adlai Stevenson, mentre l’avversario Richard Nixon è collocato nel fiume di sangue dei violenti. Esposte nel dicembre 1960 alla galleria newyorkese Leo Castelli, le opere approdarono pochi anni dopo alle collezioni del Moma di New York.
Senza arrivare a questi estremi, l’eterogeneo panorama artistico italiano degli anni Sessanta, fedele alla propria regola d’arte in linea con la figurazione deformata e l’astrazione, aderisce al progetto di illustrare la Divina Commedia con linguaggi contemporaneixxii. Le opere, realizzate da cinquanta artisti diversi – tra cui Aligi Sassu, Remo Brindisi, Ennio Calabria, Giuseppe Migneco, Bruno Saetti, Renato Guttuso, Emilio Greco, Carlo Mattioli, Domenico Cantatore, Tono Zancanaro, Mirko Basaldella e Fabrizio Clerici – a partire dal 1959 e da allora in mostra in un quasi decennale tour espositivo organizzato dalla stessa Quadriennale e dalla Società Dante Alighieri, sono poi divenute corpus illustrativo dell’ edizione del poema dantesco pubblicata nel 1965 da Aldo Martello con centoquarantadue tavole. Sono state infine acquistate dal Ministero della pubblica istruzione che le ha depositate permanentemente nel Museo di Ravenna in occasione del settimo centenario della nascita del poeta.
Per alcuni di questi artisti l’incontro con Dante fu un’esperienza profonda e coinvolgente, come per Guttuso che illustrò interamente con impeto e col suo stile a tinte forti, ansioso di attualizzare a modo suo il poema: «Cerco di vedere con la passione mia di oggi – racconterà l’artista in un’intervista rilasciata a “Paese Sera”- i fatti e i personaggi, così come la passione del suo ‘oggi’ Dante li ha visti. Il cuore umano non è cambiato molto, e Dante lo conosceva a fondo». Molto più a suo agio nella materia fosca e carnale dell’Inferno e assai meno nella simbologia sacra e nelle dispute teologiche del Paradiso, la sua Divina Commedia fu edita da Mondadori nel 1961. Nel 1970 fece seguito il Dante di Guttuso stampato da Mardesteig.
Tono Zancanaro si dedicò interamente alla Divina Commedia a partire dal 1964 con trentacinque disegni per conto dell’editore Laterza di Bari, mentre le litografie vennero realizzate successivamente, dal 1965 al 1966. Quanto al colore delle stampe, scelse il nero per l’Inferno (tranne l’episodio di Paolo e Francesca delineato in azzurro), il rosso per il Purgatorio e l’azzurro per il Paradiso. Di questa esperienza l’artista serbava una memoria molto intensa: «Non ricordo avventura più forte, esaltante e preziosa di illustrare la Divina Commedia». Zancanaro tende però ad aggirare le componenti teologiche e mistiche per dare maggior spazio alle citazioni classiche e a quelle immagini pagane che predilige, si diverte a riempire quaderni di schizzi con le orge dei lussuriosi e i corpi nudi delle grandi peccatrici a cominciare da «Taide puttana e zozzona», conformando le visioni dantesche al suo immaginario panico con quello che Ragghianti definisce «atteggiamento radicale di tipo ellenistico-ellenico di poeta del sesso»xxiii.
Nel 1986 anche Sassu completava le sue centotredici tavole del poema dantesco, con acrilici dai cromatismi accesi, che secondo le sue parole non costituirono una prova illustrativa di pura rappresentazione ma una drammatica determinate azione, ossia mettere il bisturi nella carne viva della sua pittura: «così i corpi si compenetrano, si fondono come larve infernali o paradisiache o purganti in un amalgama creato dall’intrecciarsi e fondersi delle anime che nascono e muoiono nel corpo del colore»xxiv.

Di compagine eterogenea e improntata allo sfoggio tecnico dei singoli artisti, maestri nel campo acquafortistico, è La Divina Commedia nelle incisioni degli artisti contemporanei, lussuosa edizione della Casa di Dante in Roma pubblicata nel 1987 con cento incisioni originali di autori diversi – tra cui Pietro Annigoni, Lino Bianchi Barriviera, Domenico Purificato, Renzo Vespignani, Cesco Magnolato, Alberto Sughi, Arnoldo Ciarrocchi, Walter Piacesi – con medaglioni in bronzo di Giacomo Manzù. sui piatti della rilegatura.
Legata alla precisa volontà dell’attualizzazione di Dante nel contesto contemporaneo e memore dell’esempio di Rauschenberg, è l’interpretazione grafica candidamente provocatoria della Divina Commedia di Markus Vallazza, incisore vissuto in zona mistilingue con lunghi soggiorni in Germania dove fu allievo di Kokosckha alla Schule des Sehens; per lui confronto con Dante a partire dal 1983, nel periodo della propria “selva oscura” dell’età mediana, diviene una vera e propria autoterapia, un personale itinerario interiore alla scoperta dell’io profondo, iniziato con trentaquattro acqueforti intorno all’Infernoxxv, per poi proseguire con le altre cantiche. Vallazza, dopo aver studiato a lungo i suo predecessori che hanno lavorato su Dante, parte da antichi richiami trecenteschi e quattrocenteschi, dagli affreschi (la sua grande acquaforte Nel regno di Lucifero ricorda l’Inferno di Nardo di Cione in Santa Maria Novella a Firenze) ai disegni botticelliani, per arrivare a inglobare aspetti della realtà attuale come le guerre, i campi di sterminio, il proliferare di sette religiose, l’inquinamento, fino alle astronavi moderne volteggianti nel paesaggio cosmico (Dante diviene egli stesso astronauta) e con ardite allusioni sostituisce a quelli del racconto personaggi del nostro tempo a lui particolarmente cari, come Ezra Pound al posto di Virgilio nel ruolo guida spirituale e Nietzsche nelle vesti di Ulisse, oppure nell’empireo colloca al posto dei santi Van Gogh, Matthias ClaudiusSaint Exupery o Georg Trakl perché, dice l’artista, «se lo meritano»xxvi. Similmente l’autodidatta Achille Incerti, indirizzato verso la Commedia nel 1961 da Dino Buzzati, realizza una serie di centotre quadri – arieggianti nell’Inferno il futurismo di Depero con i gironi pieni di mostri meccanici, grattacieli, ciminiere e cannoni – col preciso impegno morale di condannare la guerra e la violenza, mentre nel Paradiso fatto di sole figure molecolari e floreali dipinte a colori pastello, celebra la luce e l’armonia.

Altro esempio di trasposizione moderna, ma più disincantata, è il Dante’s Inferno di Tom Phillips (London, Talfourd Press 1983). Partito da una miriade di appunti eterogenei che teneva appesi nella sua stanza lavorando ossessivamente sul tema – dalla storia dell’arte alla televisione, dai fumetti ai francobolli, andati a costituire quello che chiamava il «Dante diary» – compose un libro d’artista illustrato con elaborazioni grafiche stampate nelle più svariate tecniche (litografia, acquaforte, acquatinta, cera molle, serigrafia). Con disinvoltura e ironia Phillips nella tavola del canto XXIII coglie l’aspetto comico dei diavoli beffati da Ciampolo che precipitano nel lago di pece emettendo un sonoro «shoooom» a guisa di fumetto, mentre in quella del Canto XXXI il gigante è trasformato nel cinematografico King Kong che, ergendosi sull’inferno della metropoli, tiene la bella nella sua mano. L’Inferno di Phillips sfociò di lì a poco in una miniserie per la TV inglese in collaborazione con il regista Peter Greenaway, che gli autori definirono «the authentic voice of Post-Modernism»xxvii
Alla vigilia del terzo millennio ricordiamo la Divina Commedia illustrata a tre mani – per l’Inferno Lorenzo Mattotti, per il Purgatorio Milton Glaser per il Paradiso Jean Miraud Moebius – edita da Nuages: il primo col suo brillante stile di fumettista d’autore, il secondo tagliando delle “forme” di carta, inchiostrandole con colore ad olio e poggiandole su una lastra di plexiglass già inchiostrata, il terzo, che rivelava con modestia di aver “appoggiato di nascosto la sua carta da ricalco”sulle visioni angeliche di Doré, con chine acquerellate di squisito gusto favolisticoxxviii.
Saggio di EMANUELE BARDAZZI pubblicato con diverse illustrazioni in: Divina Commedia. Le visioni di Doré, Scaramuzza, Nattini, a cura di S. Roffi, catalogo della mostra, Parma, Fondazione Magnani Rocca, Milano, Silvana Editoriale, 2012.
i A. M. Damigella, La pittura simbolista in Italia 1885-1900, Torino 1981, pp. 207-208.
ii L’esito controverso fu percepito già all’epoca, come ben si evince dal commento che Fedele Romani stilò all’indomani della pubblicazione completa dei tre volumi: “Accanto all’artista sicuro e pago della sua linea ch’egli imprime tenendo fisso l’occhio alla tradizione, ecco l’artista che s’affanna alla ricerca degli effetti nuovi, e, mentre dubita del colore delle sue stesse linee, chiede invano alla forma agitata e deformata, ma pur sempre immobile, l’espressione della fervida mutevole vita dei sentimenti. Vedete l’artista che ha più fiducia nella sua macchina fotografica che nel suo proprio occhio; e l’altro che cerca di ricoprire col solenne manto di una teoria, o della ‘visione personale’ la mancanza del senso estetico e della conoscenza del disegno. Ed ecco il simbolista; ecco il freddo botticelliano, e il seguace dell’‘Arte Nuova’. E non manca colui che cerca affannosamente di ‘formarsi uno stile’ senza aver prima pensato se sia possibile di formarsi un carattere. Ed ecco finalmente l’eclettico che tutto saccheggia…”. F. Romani, Dante Alighieri, La Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani a cura di Vittorio Alinari…, in “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, vol. XI, aprile-maggio 1904.
iii Si vedano in particolare:…e nell’idolo suo si trasmutava. La Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani. Concorso Alinari 1900-1902, a cura di C. Cresti e S. Solmi, catalogo della mostra, Bologna 1979; Dante tra Simbolismo e Liberty. La Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani, a cura di A. Frintino, presentazione di C. Cresti, catalogo della mostra, Montecatini 1991; C. Gizzi, L’arte nuova e Dante, catalogo della mostra, Torre de’ Passeri 2000, Milano 2000; La Commedia dipinta. I concorsi Alinari e il Simbolismo in Toscana, a cura di C. Sisi, catalogo della mostra, Firenze 2002.
iv G. Vandelli, prefazione a D. Alighieri, La Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani a cura di Vittorio Alinari, vol. I, Inferno, Firenze 1902, p. VII.
v A. Marinelli, Un artefice del “buon tempo antico” Attilio Razzolini, in “L’Arte della Stampa”, A. XL, Ser. VII, 1910.
vi P. Pacini, La fortuna di Dante nelle carte povere, in Dante Vittorioso, il mito di Dante nell’Ottocento, a cura di E. Querci, catalogo della mostra, Firenze 2011, pp. 171-172.
vii A. M. Damigella-G. Reggi, Basilio Cascella e la “Illustrazione Abruzzese” dal verismo al simbolismo, Pescara 1991, p. 29.
viii Una profonda analisi delle immagini dantesche di von Bayros è in M. Lorandi, Figurae. Franz von Bayros per Dante, Lucca 1997.
ix F. M. Zandrino, Un nuovo illustratore di Dante per una prossima esposizione di disegni alla Permanente, in “La Sera”, Milano 20 aprile 1915.
x L’opera durata 20 anni e sette compiuti mesi fu portata a compimento solo nel 1939 dopo varie vicissitudini e critiche di partito opposto (acceso fu il contrasto nel 1931 tra il sostenitore Ojetti e lo stroncatore Pier Maria Bardi dalle rispettive testate del “Corriere della Sera” e “L’Ambrosiano”). Dieci anni erano occorsi per la realizzazione dell’Inferno, sei per il Purgatorio e tre per il Paradiso che fu stampato solo nel 1945 essendo andati distrutti gli impianti dell’Istituto Nazionale Dantesco. L’analisi più completa delle immagini nattiniane è in Amos Nattini e Dante, a cura di C. Gizzi, catalogo della mostra Torre de’ Passeri 1998, Milano 1998.
xi U. Ojetti, Giovani. Amos Nattini, in “Il Corriere della Sera”, Milano 28 gennaio 1922 (poi in U. Ojetti, Ritratti di artisti italiani, Milano 1923, pp. 227-236).
xii C. Pavolini, Una edizione monumentale della “Divina Commedia”, in “Il Tevere”, Roma 19 maggio 1927.
xiii Un esemplare unico di essa che Alinari riservò per se stesso contiene allegati novanta disegni originali a detta dell’editore serviti ad illustrare la prima e la seconda edizione, in realtà in massima parte consistenti in delle varianti e delle riduzioni di esse eseguite dai medesimi artisti in anni che non sono possibili stabilire con certezza. Il volume ad personam è recentemente comparso nell’asta Libri, manoscritti e autografi, Casa d’Aste Gonnelli, Asta 7, Firenze 11-13 novembre 2011, n. 37 (scheda a cura di E. Bardazzi).
xiv Pica avrebbe desiderato una maggiore ponderatezza nell’affrontare la commissione, ma la fretta imposta da Alinari non concesse a Martini il tempo necessario per una giusta e decantata elaborazione. “Se avesse lavorato con maggiore calma – notava il critico – io sono persuaso che il Martini avrebbe saputo evitare le troppo evidenti sproporzioni che osservansi nelle ignude figure, che tragicamente gesticolano e si dimenano nella barca di Caronte; che avrebbe dato un aspetto meno coreografico al Messaggiero del cielo del canto IX; e che avrebbe resa con minore superficiale esteriorità l’apparizione delle quattro grandi ombre di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Una maggiore meditazione l’avrebbe forse persuaso altresì che, dovendosi dal disegnatore sempre e soltanto rappresentare ciò che appare agli occhi del fiero vate fiorentino nel suo viaggio attraverso i cerchi dell’Inferno, i gradoni del Purgatorio e le luminose sfere del Paradiso, la persona di lui non deve mai apparire, mentre invece nel maggior numero delle composizioni del Martini, come del resto in quelle di quasi tutti gli illustratori della Divina Commedia, l’austera figura di Dante, vestita del tradizionale lucco, è posta bene in evidenza, diventando presto antipatica e uggiosa, come quella di un istrione che posi pel pubblico o di un precursore trecentesco degli accorti e verbosi intervistatori dei giornali d’oggidì”. V. Pica, I giovani illustratori italiani: Alberto Martini, in “Emporium”, vol. XX, n. 116, agosto 1904, pp. 187-188.
xv Dopo un contatto andato a vuoto con Mondadori, Martini firmò un contratto nel 1944 con la casa editrice Cenobio-Sadel che preparò i clichés ma per varie difficoltà e contestazioni legali mise solo poche copie in circolazione nel 1949. Il volume conteneva una prefazione di Ettore Cozzani, tre tavole a colori e cento in bianco e nero. La casa editrice Mondadori ha pubblicato recentemente l’intero corpus conservato alla Pinacoteca Alberto Martini di Oderzo, saldando materialmente l’impegno morale con l’artista, in La Divina Commedia illustrata da Alberto Martini, a cura della Pinacoteca Alberto Martini, con un testo di V. Sgarbi, prefazione di P. Bonifacio, Milano 2009. Per approfondimenti si vedano anche Alberto Martini e Dante, a cura di C. Gizzi, catalogo della mostra Torre de’ Passeri 1989, Milano 1989; E caddi come l’uom che ‘l sonno piglia. Alberto Martini e Dante, a cura di P. Bonifacio, catalogo della mostra Oderzo 2004, Treviso 2004.
xvi L’applicazione di Galizzi alla Divina Commedia dovette iniziare nei primi anni Venti, inizialmente in chiave burlesca con una serie di caricature, poi più seriamente a detta dell’articolo di Raffaele Calzini che riproduce come saggio il disegno Minotauro per l’Inferno, prima idea di una tavola che l’artista svilupperà nell’edizione del 1943. R. Calzini, Un illustratore: G. B. Galizzi, in “Emporium”, vol. LVIII, n. 348, 1923, pp. 368-376.
xvii Giovan Battista Galizzi fu incisore e illustratore specializzato nei classici come I Santi Evangeli, l’Orlando furioso, I promessi sposi e Le avventure di Pinocchio. Giovan Battista Galizzi. 1882 – 1963. Pittore simbolista, catalogo della mostra a cura di F. Rea, Bergamo 1998.
xviii Per Paola Pallottino, pur esplorando tutte le possibili trasformazioni, le immagini di Dalì tendono anche a replicare certe soluzioni strutturali sancite dalla tradizione iconografica e entrano talvolta in originale simbiosi col testo. P. Pallottino, L’Inferno figurativo di Salvador Dalì tra permanenza e rottura degli schemi iconografici tradizionali, in Salvador Dalì e Dante, a cura di C. Gizzi, catalogo della mostra torre de’ Passeri 1997, Milano 1997, pp. 87-90.
xix Salvador Dalì, La Divina Commedia e altri temi, a cura di G. L. Gualandi, Bologna 1989.
xx Si veda l’approfondito saggio di I. Schiaffini, La Divina Commedia di Salvador Dalì: una storia italiana, in “Critica del testo”, XIV/2, 2011. Dante, oggi / 2, pp. 643-674.
xxi Si rimanda alla recente analisi di C. Zambianchi, Dalla Divina Commedia Alinari all’Inferno di Rauschenberg. Qualche aspetto dell’illustrazione novecentesca di Dante, in “Critica del testo”, cit., pp. 684-693.
xxii Cinquanta artisti italiani illustrano la Divina Commedia, catalogo della mostra organizzata dalla Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, Santa Sofia di Romagna 1979.
xxiii La Divina Commedia di Tono Zancanaro, con un saggio di C. L. Ragghianti, catalogo a cura di G. Nudi e F. Ragghianti, Pisa 1965, p. 13.
xxiv Aligi Sassu e la Divina Commedia, testi di A. Sassu e di F. Ulivi, catalogo della mostra, Siena 1996.
xxv Markus Vallazza e l’Inferno Dantesco, a cura di F. Vicentini, Bolzano 1996.
xxviVallazza. La Divina Commedia, a cura di M. de Pilati, catalogo della mostra Rovereto 2007, Milano 2007.
xxvii A TV Dante. Directed by T. Phillips and P. Greenaway. Notes and commentaries by T. Phillips, London 1989, p. 8.
xxviii La Divina Commedia: illustrazioni di Lorenzo Mattotti, Milton Glaser, Moebius, presentazione di F. Giromini, catalogo della mostra Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Milano 2000.
2 Comments
Giulia Ballerini
22 Gennaio 2021 at 11:45Come una “ virgiliana” guida, questo saggio offre una panoramica attenta ed esaustiva che accompagna per mano il lettore nella selva delle innumerevoli illustrazioni dantesche del ‘900, svelando illuminanti considerazioni che solo la penna di un esperto di grafica come quella di Emanuele Bardazzi sa fare. Il saggio del 2012 è di grande attualità, ancora oggi, in occasione del settimo centenario della morte dell’Altissimo Poeta.
Attilio Coltorti
11 Aprile 2021 at 16:38Interessante ricognizione. Aggiugerei: Giuseppe Castelli, La Divina Commedia di Dante Alighieri ampiamente tradotta in prosa per uso del popolo italiano (con disegni di Oreste Amadio), Soc. Editoriale Milanese, 1910 (a fascicoli); “La Divina Commedia con 105 tavole a colori di G.B.Galizzi e 100 di Bruno da Osimo…”, ed. Bolis 1947; “La Divina Commedia in cento tavole di Ulisse Ribustini”, ed. Volumnia 1980.